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“IO. NOI. GLI ALTRI”

23 Agosto 2023

Carola Fasana

A rompere il silenzio è il video che racconta l’attracco a Lampedusa della nave ONG comandata da Carola Rackete. Un violentissimo tsunami di insulti la travolgono. Uno prevale sugli altri “TI DEVONO STUPRARE I NEGRI PUTTANA A QUATTRO A QUATTRO E TI DEVONO INFILARE…”

 

Come si fa a a dire una cosa del genere con tanta forza e convinzione? Basta guardare il tuo obiettivo e declamare l’insulto, non deve essere difficile. Ci è riuscito uno qualunque, ce la può fare anche lui. Si prepara. Prende un respiro, si avvicina al microfono ma non ce la fa. Ci riprova. “Faccio il neutro”. Va al microfono e gli esce un filo di voce monotono. “No, non funziona!”. Ci riprova. E ci riprova e ancora finché capisce che non può riuscire da solo, ha bisogno di un gruppo, perché questi qua, questi nel video, non sono mai da soli, ma sono una massa indistinguibile, tanti cervelli che funzionano come uno solo. Quindi, quando il pubblico si trasforma in un fuoco che aizza violenza e rabbia sbattendo i piedi per terra e gridando, Nicola si avventa sul microfono e urla quelle parole tutte d’un fiato.

 

“Mi sento meglio, ora che le ho gridate!” Cerca il pubblico con lo sguardo “è normale?”. Silenzio. “È normale?” Silenzio.

 

La voce che prevale sugli altri nello tsunami di insulti è di Mario Lombardino. Nicola lo rintraccia  subito sui social: è un giovane di ventitré anni pizzaiolo, con una compagna e da poco diventato papà. Il suo profilo Facebook è pieno di cuoricini, frasi motivazionali e una foto della figlia con altri cuoricini che le coprono occhi e bocca.

 

Insomma, sì, probabilmente non è uno che legge Tolstoj, non ha fatto il classico, non indossa le Clark e non fa parte di quel gruppo di giovani comunisti di Bologna che indossano le Clark e hanno fatto il classico. Lui non è un artista, ma fa semplicemente il pizzaiolo. Probabilmente è solo un po’ ignorante, ma non sembra un violento. Sì, passerà le sue giornate sui social facendo scrolling o al bar con i suoi amici che sono tipi come lui a parlare di nulla, non certo di massimi sistemi. Sì, è padre ma uno così non lo si immagina tanto giocare con la figlia, quanto piuttosto piazzarla in braccio alla compagna così lui è libero di uscire con quelli là a cazzeggiare.

 

Questa escalation di deduzioni giudicanti raggiunge l’apice quando lui, l’uomo qualunque, osa non rispondergli. Osa non rispondere a lui, all’artista, al letterato di sinistra, ma come cazzo si permette? Quello lì, ignorante. Uno che non capisce un cazzo. Essere inutile. Un sotto-uomo. Ma come cazzo gli passa anche solo per l’anticamera del cervello di non rispondergli. Lui ha provato a dare un senso a quell’esistenza inutile, sta facendo uno spettacolo su di lui e questo cretino cosa fa?! Non risponde.

 

La rabbia è un fumo nero che si infiltra nel nostro cervello, una fitta nebbia soffocante che cancella i confini. Non si vedono più limiti, si percepisce solo di essere stati calpestati e questa sensazione intollerabile ci spinge a calpestare l’altro che si è permesso di svilire il nostro io. Così siamo lì, uno di fianco all’altro, degli IO che si schiacciano e, per difendere i nostri confini, cancelliamo quelli dell’ALTRO.

 

Lo stesso fumo nero si sta propagando in ogni fibra del corpo di Mario Lombardino mentre gira in auto come un criceto ossessivo intorno a Lampedusa. La musica è a palla, le parole non dette alla compagna, ai genitori della compagna si accumulano in gola pesanti, una dopo l’altra. Ma la bocca è chiusa e loro si bloccano lì, lo soffocano dall’interno mentre gira su se stesso. E gira, gira  e la musica è sempre più alta. Poi non riesce più a contenerle e vomita tutto. “TI DEVONO STUPRARE I NEGRI PUTTANA…”

 

La verità è che siamo tanti io spaventati, poveri, impacchettati in sacchetti di plastica per allontanare il germe dell’altro. Siamo degli aerei che si sono spiaccicati al suolo per via del fumo nero che si è propagato nei nostri ingranaggi. Dei disastri aerei.

 

 

 

 

A CONFRONTO CON NICOLA BORGHESI

 

 

La metafora del disastro aereo finale come spettatrice mi ha sorpreso un po’ alle spalle. Volevo chiederti da dove è nata e se magari la tua intenzione fosse proprio questa.

 

L’immagine del disastro aereo credo sia inchiavardata nella mia testa, nella nostra testa dei Kepler, da Ustica. Noi abbiamo fatto uno spettacolo su Ustica qualche anno fa che si chiama È  assurdo che gli aerei volino, uno spettacolo a cui sono molto affezionato anche se è uno spettacolo di molto tempo fa che non ha girato molto. Non so se tu sia mai stata a vedere l’aereo di Ustica, se vai a Bologna c’è il museo dove è conservato il relitto dell’aereo cargo di Ustica, lo tirarono su ed è stato ricostruito incastrando i pezzi. Ci sono 88 lampadine, come il numero dei passeggeri, che si accendono e si spengono e gli effetti personali delle persone sono impacchettati in sacchi neri e in altrettanti sacchi neri sono impacchettate le voci registrate su ogni tipo di pensiero che può avere un passeggero che sta facendo il check-in, etc. A me quell’immagine mi ha impressionato. Io ho molta paura degli aerei e l’immagine del disastro aereo nella mia vita ricorre molto spesso. Non lo so io credo che questa immagine sia un qualche cosa che appartenga ad un inconscio collettivo e quindi l’abbiamo provato a mettere lì e ci faceva piacere che virasse in questo luogo che, come dici tu, ti sorprende alle spalle.

 

 

 

I sacchetti mi hanno fatto un po’ pensare al fatto che siamo tante navi separate come dici nello spettacolo.

 

Sì, l’immagine dei  pezzi! Essa ha un po’ a che vedere anche con la struttura drammaturgica sia come scrittura sia come drammaturgia sonora dello spettacolo che è impostato come uno scrolling su Instagram. Una serie di scene che vengono fuori, apparentemente irrelata una con l’altra rette da questa struttura esilissima di uno che legge questa notizia sul giornale e poi trova il modo di contattare il protagonista della vicenda.

 

 

Tu in tutto lo spettacolo parli di come sia facile diventare l’altro. Mi chiedevo in che altre occasioni ti sei sentito di scavalcare…

 

Io credo che le occasioni siano talmente tante che non ci fai caso e quella è la cosa più pericolosa, naturalmente. Secondo me anche professionalmente è facile, se vuoi avere un po’ di potere nel senso più ampio del termine come il  potere di stare su un palco a dire delle cose devi scendere a dei compromessi. L’asticella che metti tra quello che ha senso fare e dove vuoi arrivare è una cosa che ti sbatte quasi automaticamente dall’altra parte. L’unico antidoto è, credo, il continuo arrovellarsi, il continuo domandarsi sulle scelte che fai senza la garanzia di stare facendo bene. È un continuo. Anche fare uno spettacolo ti mette davanti a delle scelte produttive e relazionali e poi… al di là del teatro mi arrabbio in continuazione. L’insieme delle ragioni sociali ed economiche e i casi della vita che ti porterebbero ad essere al sicuro e poi non lo sei e  allora tu ti arrabbi per le cose inutili, stupide delle quali, poi, ti vergogni. Siamo delle povere cose, questo è l’unico fatto. Siamo dei disastri aerei, delle povere cose che cercano di darsi un po’ d’importanza, invece, siamo tanto fragili.

 

 

 

Nello spezzone della telefonata con Mario, quando lui ti rivela che il suo passatempo è il giro in macchina” come un criceto” tu ridi di gusto. Mi chiedevo se questa risata fosse esagerata oppure naturale.

 

Io sono questo. No, diciamo contestualizzata suona grottesca, la telefonata comunque andava avanti da un pezzo e noi eravamo in confidenza. Io, me lo dico da solo, sono abbastanza bravo ad entrare in confidenza con le persone e credo che sia un po’ un tratto anche della compagnia. Noi abbiamo un approccio un po’ informale e questo rende abbastanza comune che poi si creino delle aree di confidenza. Però lì sì ero in imbarazzo. È una cosa che non mi capita molto spesso, ma era difficile perché già sapevo tutto. Avevo già fatto tutta una parte di spettacolo e quindi avevo già analizzato il mio odioso paternalismo, la mia odiosa sicurezza dei miei mezzi intellettuali. Non avevo vie di scampo e quindi ridi quando hai finito le opzioni. Che fai? Ridi.

 

 

 

Ho un’ultima curiosità: durante la telefonata è emersa, oltre al giro in macchina che fai anche tu d’inverno con la tua fidanzata e la rabbia, qualche altra cosa che ti ha fatto sentire Mario più vicino a te? Insomma, meno “altro”.

 

Io gli ho voluto bene in quella telefonata. Ad un certo punto tra l’atro mi ha detto una cosa, non se è vero o se è falso, che dove lui giocava a calcio da bambino adesso c’è un centro di accoglienza. E io ho una forte sensibilità per il tema dei luoghi, mi piacerebbe che i luoghi non cambiassero mai e mi piacciono i luoghi vecchi. Quando qualcosa cambia nella mia città a cui sono affezionato, mi irrigidisco. Quindi io l’ho capito. Forse anche io, forse no… Tanto io non sono mica cresciuto a Lampedusa, sono nato a Bologna che è un’altra cosa, non faccio il pizzaiolo, è un ‘altra vita. Alla fine, questa somiglianza è una questione di quanto scavi, sotto un certo livello la somiglianza aumenta. Fino ad arrivare alla morte nella quale ci assomigliamo in una maniera spettacolare!