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Le Clarisse che potremmo essere

31 Agosto 2019

Mara Travella

Carine ma non troppo, intelligenti ma non troppo, brave a cucinare, silenziose, docili, accondiscendenti e se per caso la tua famiglia non ha soldi per la dote e nessuno ti vuole comprare allora biglietto di sola andata per il convento. Ah, non volevi farti monaca? Peggio per te.

 

Così è andata sempre. Salvo alcune eccezioni, e per fortuna le eccezioni ci sono sempre. Come quella delle sei monache di Udine, conosciute poi come Le Clarisse, che nel Cinquecento decisero – per la prima volta, gettando quel primo ‘seme di Resistenza’ – di opporsi, di non accettare quel ‘peggio per te’ e di creare all’interno del convento uno spazio libero e autonomo che è tra i primi esempi di contestazione femminile del potere. Donne che «non si sono accontentate delle briciole all’interno di un sistema patriarcale» come ci ha detto Marta Cuscunà nell’intervista che le abbiamo fatto a proposito de La semplicità ingannata, andato in scena ieri sera nella bella cornice delle cave di marmo.

 

«Mi sembrava sconvolgente» ha continuato «che pur essendo una storia lontana nel tempo e nella tematica – poiché la monacazione forzata non è più un problema – ci fossero delle analogie con il nostro tempo. Prima fra tutte la monetizzazione della figura femminile, presente ancora oggi nelle pubblicità, e che nel periodo in cui stavo scrivendo era  rappresentato perfettamente dallo scandalo delle olgettine, dove al posto delle tangenti c’erano le ragazze». Parte di una trilogia (È bello vivere liberi e Sorry, boys) lo spettacolo è frutto di una ricerca e di uno studio su materiali storici. E poi dalla Storia si approda al teatro attraverso un lavoro di rielaborazione e riscrittura che Marta realizza con Marco Rogante, suo assistente alla regia e tecnico, che prima come «spettatore esterno» e poi come parte attiva del processo creativo l’accompagna fino alla versione definitiva dello spettacolo.

 

Li abbiamo incontrati questa mattina, soddisfatti e felici dopo la performance di ieri e pronti a partire, «che tanto il materiale dello spettacolo (le sei pupazze ‘monache’ e l’ ‘Inquisitore’ che Marta muove e fa parlare con grande abilità) ci sta in un bagagliaio» e quindi la storia delle Clarisse è sempre pronta a viaggiare, a stupire ancora nuovi spettatori raccontando – che ancora e sempre ne abbiamo bisogno – di femminismo, di libertà di movimento, pensiero, e parola.

Parliamo innanzitutto del rapporto con le fonti storiche e dell’elaborazione che avete fatto sul testo sino a farlo diventare spettacolo teatrale.

Marta: La fonte principale è stata questo saggio storico che si chiama Lo spazio del silenziodi Giovanna Paolin, storica di Trieste. Lei ha affrontato in un primo capitolo il tema della monacazione forzata e il suo funzionamento. La storica stessa presenta storie di resistenza alla monacazione forzata, tra cui quella delle Clarisse, di Arcangela Tarabotti e di altre donne. Da subito la storia delle monache Clarisse mi ha affascinata, ha una potenza incredibile. Una volta deciso di affrontare questo discorso ho iniziato a studiare anche Arcangela Tarabotti, autrice nel Seicento di scritti riguardanti la monacazione forzata. C’era una differenza di documenti storici poiché delle Clarisse non c’era nulla riguardo a documenti biografici, mentre di Arcangela c’era molto materiale, quindi inizialmente ho scritto versioni completamente separate, e solo in seguito abbiamo pensato di unirle.

 

Marco: All’inizio Marta svolgeva le ricerche e cercava di non coinvolgermi minimamente, mi arrivava la prima stesura del testo senza che io ne sapessi niente, magari mi aveva solo accennato il tema. Questo perché volevo rimanere neutro e il più possibile oggettivo. Tendenzialmente lei mi presenta il testo, io lo leggo e cerco di capire dove può funzionare, dove no, e do suggerimenti. Quando si arriva ad un testo che può andare in scena iniziamo a provare e anche qui rielaboriamo molto. Ne La semplicità ingannata ad esempio abbiamo usato due storie e inizialmente non sapevamo come unirle. Poi abbiamo capito che le due vicende potevano funzionare molto bene perché mentre le Clarisse raccontano la fase rivoluzionaria, la storia di Arcangela messa all’inizio permette il punto di vista di una bambina che si trova in questo mondo sconosciuto.

C’è un legame tra questo spettacolo e ‘È bello vivere liberi’, primo spettacolo della trilogia?

Marta: Quando avevo cominciato a lavorare su Ondina Peteani, partigiana, mi aveva stupito scoprire che i semi del femminismo ci fossero già nella lotta antifascista e di liberazione. Molto prima del femminismo del ’68 e proprio in un momento cruciale della storia del nostro paese le donne avevano capito che dovevano cambiare il ruolo che potevano rivestire in un paese democratico. Questo essere in anticipo rispetto al Sessantotto mi aveva colpita, non l’avevo preso in considerazione. La storia delle Clarisse si lega benissimo poiché è addirittura precedente. Arcangela Tarabotti in questo senso è considerata una pensatrice protofemminista, perché rivendica la libertà delle cittadine veneziane in un’epoca in cui  – per dire – ci si chiedeva se le donne avessero o meno un’anima.

Il titolo dello spettacolo ‘La semplicità ingannata’ è tratto da un testo di Arcangela Tarabotti. Marta Cuscunà, che cos’è per te la ‘semplicità ingannata’?

Marta: La semplicità ingannata per me è che siamo nel 2019 ancora caschiamo nella rete del sistema. La differenza tra noi e le Clarisse è che loro non si sono accontentate delle briciole all’interno di un sistema patriarcale. Loro hanno detto: “noi qui dentro possiamo creare qualcosa di  completamente diverso.” Noi non abbiamo questo coraggio. Ci accontentiamo di questi piccoli spazi all’interno di un sistema che ancora ci schiaccia. Se si pensa al lavoro della  ‘cortigiana onesta’ (una prostituta ndr) è ancora un tema su cui il movimento femminista oggi è molto diviso. Io mi sento in difficoltà perché è difficile parlare di libertà se sei in un meccanismo economico e non sei tu che decidi le regole.

C’è un grande utilizzo dell’ironia nello spettacolo: ce ne volete parlare?

 

Marco: Il discorso dell’ironia è tangenziale a tutti gli spettacoli. Fin dall’inizio abbiamo cercato di uscire dalla classificazione di genere, che non ha senso di esistere. Shakespeare quando viene fatto bene è sia comico che drammatico. Abbiamo subito cercato di andare in quella direzione, e i pupazzi ti permettono di esaltarla tantissimo. Per la scena del processo abbiamo lottato molto – al di là del fatto che fosse esilarante e che le monache prendessero in giro l’Inquisitore –  perché non c’era nulla. Ci siamo dovuti inventare molto nel testo.

 

Marta: Da un lato l’ironia era uno dei tratti caratteristici della vicenda delle Clarisse. Davvero nei documenti si può leggere di come queste monache si facevano beffe dell’Inquisizione, di come si fingevano ingenue e di come scaricavano la responsabilità delle accuse su suore già morte. L’ironia mi è sembrata un’arma interessante visto che ci sono molti pregiudizi nei confronti delle femministe, mi sembra un modo per creare un incontro senza diffidenza. I pupazzi permettono proprio questo tipo di linguaggio immediato. Nel racconto ci sono poi dei continui passaggi tra passato e presente, con riferimenti anche a ciò che in quel momento stava succedendo: si tratta ad esempio dell’enciclica del 2007 in cui  Ratzinger aboliva il Limbo.

Abbiamo cercato di mettere nel testo le cose che ancora ci riguardano. C’erano diversi elementi per cui le Clarisse sono state accusate di eresia, come per esempio il fatto che pregassero verso il sole. Questo aspetto io ho avuto la necessità di trasformarlo in legame con la Dea femmina. Era una forzatura evidente, per cui ne ho parlato con le storiche e sebbene di questo non ci sia conferma dai documenti è emerso che le clarisse avevano smesso di confessarsi con il confessore e raccontavano i loro peccati alla badessa, quindi questo elemento di genere anche nel riconoscimento dell’autorità  effettivamente c’era. A noi oggi del fatto che fossero anabattiste e libertarie forse importa meno, ma ci sono elementi che continuano a persistere come la presenza di un’istituzione ecclesiastica che è ancora fortemente patriarcale e sembra che noi non ci facciamo caso.