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«Io mi rinasco»

1 Settembre 2018

di Mara Travella

Abbiamo fatto una chiacchierata con le cinque voci – quelle di Francesca Cecala, Miriam Gotti, Barbara Menegardo, Ilaria Pezzara, Swewa Schneider – protagoniste di Piccolo canto di resurrezione, della compagnia Associazioni Musicali si cresce, andato in scena ieri sera all’OSC di Mendrisio. Si è cercato di capire come è nato lo spettacolo, che importanza ha il canto e perché l’urgenza di parlare oggi di resurrezione.

 

Buona lettura!

Vorrei parlare con voi dell’idea della resurrezione, della rinascita, attorno alla quale ruota tutto lo spettacolo. In questo momento storicamente delicato, da dove nasce la necessità di parlare di questo tema?

Tutto quello che abbiamo fatto è nato un po’ alla volta, ogni passo ci portava a quello successivo. Siamo partite dalla lettura del libro di Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, all’interno del quale abbiamo trovato la leggenda della Loba, che ci ha colpito perché avevamo il desiderio di mettere il canto all’interno dello spettacolo, e di trattare il tema sacro della leggenda. Questa è stata la prima motivazione. Sono anni che facciamo ricerca nell’ambito del canto popolare, del canto sacro. Ci interessava il canto come trasformazione, canto come rito d’iniziazione, canto come mutamento (infatti, all’interno della storia, il lupo morto una volta riportato in vita dal canto si trasforma in una donna). A partire dalla storia della Loba ci siamo collegate al tema della resurrezione, della rinascita. E dalla rinascita siamo passate al riscatto.

l testo, lo spettacolo, nasce quindi da un’esigenza personale?

Una rinascita prima che fuori deve avvenire dentro, parlare di questo era un’urgenza di tutte noi, perché il significato che possiamo dare dev’essere prima di tutto quello che abbiamo sperimentato personalmente. Il testo è quindi in gran parte è autobiografico. Ma i nostri temi personali sono, ovviamente, temi che riguardano la collettività, che riguardano tutte e tutti, e abbiamo cercato di affrontare tematiche universali che toccano l’essere umano nella sua crescita.

Questa ricerca di universalità si riflette anche nelle varie fasi della vita che sono avvicinate nel vostro spettacolo. C’è l’infanzia – ­con una frase che dite, molto bella: “I bambini sono maestri di vita, muoiono e rinascono ogni giorno”– c’è l’adolescenza, l’età adulta e infine la vecchiaia. Era voluto?

Non abbiamo iniziato con l’idea di rappresentare l’intera vita dell’essere umano. All’inizio cercavamo una storia e ci siamo rese conto che trovarne una che riassumesse tutto questo non era possibile. Così abbiamo deciso che a scrivere saremmo state noi. E nel momento in cui abbiamo scritto, in cui abbiamo iniziato a lavorare sui testi, e a condividerli, ci hanno fatto notare che questo aspetto si poteva sviluppare. In una linea di universalità era giusto toccare anche l’infanzia. Quello che c’interessava era che il materiale venisse da noi, infatti nella realizzazione di questo lavoro c’è stato un grande momento di scrittura comune. E con scrittura comune non intendiamo dire che abbiamo scritto tutte insieme, ma che ognuna ha portato ciò che veniva da dentro, ciò che sgorgava, dal cuore, dall’animo, dal vissuto. Dopo, insieme alle altre, si è deciso cosa tenere, cosa modificare. È una drammaturgia collettiva, perché siamo state in grado di affidarci l’una all’altra. È stato un atto di fiducia.

In questo universo di sole donne, avete lasciato lo spazio a una voce maschile. Poteva essere uno spettacolo spontaneamente femminile, e invece c’è un io – narrante che è un uomo. Come mai?

Quella storia, quella di un uomo che perde il lavoro, è una storia di morte sociale, che troviamo sia un tema forte in questo momento. Ad un certo punto ci è stato suggerito di scrivere lo stesso monologo da un punto di vista femminile, ma non aveva lo stesso peso. La frattura che si crea, quando un uomo perde il lavoro, non è forse la stessa rispetto a quella che può sentire una donna, come se la morte sociale legata al lavoro la si colleghi più frequentemente all’uomo. È una visione che non ha una risposta razionale, è emotiva. Non è comunque uno spettacolo legato alle donne o agli uomini, inoltre c’è la componente musicale che è universale e va a toccare delle corde che non hanno genere. Durante lo spettacolo c’è la metafora della rinascita come un parto – un’immagine molto femminile – però è qualcosa che ognuno può sentire, indipendentemente dal proprio genere. In questi tempi è necessario uno spettacolo che parli a tutti, perché tutti dobbiamo trovare il nostro modo di rinascere.

Collegandoci a quanto dite sulla musica, vorrei parlare del canto che – come accennavate già all’inizio – è una costante in tutto lo spettacolo, quasi come ne tenesse unite le parti. Per uno spettatore è più facile riconoscere canti religiosi che appartengono alla nostra cultura cattolica, ma ce ne sono altri che sono in altre lingue…ce ne volete parlare?

Si tratta comunque di canti che appartengono a tradizioni sacre. Si può riconoscere un Ave Maria, però c’è anche un canto corso, uno brasiliano, uno georgiano – che forse è il meno sacrale di tutti. Ma bisogna dire che ci sono due tipi di canti sacri: un che si riferisce a una divinità, e l’altro che può assumere questo significato, può diventare mistico, ma a livello personale. Se un canto non nasce per essere speso in un contesto spirituale, questo non vuol dire che per noi non possa assumere quella connotazione. Il canto va a toccare l’intimo dell’essere umano, può essere sacro, anche se è un pezzo rock. Ci sono poi altri sottofondi musicali, altre sonorità che sono nate per lavorare, per duettare con la parola.

l rischio di fare uno spettacolo molto serio, forse pesante per il pubblico, era grande, invece siete riuscite ad introdurre l’ironia, il sorriso.

Più che parlare della morte, noi vogliamo parlare di ciò che ti riporta alla vita, certi temi basta evocarli, basta una parola. Nel nostro contesto culturale la morte è qualcosa di doloroso, è un’inevitabilità, e per questo a teatro va affrontata in maniera diversa: è anche per questo che abbiamo cercato di fare delle sintesi, dei movimenti musicali. Quello che una volta abbiamo affrontato con dolore oggi riusciamo a guardarlo con serenità, a riderci su. Ed è una trasformazione necessaria.