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Deus est machina?

20 Agosto 2022

Giacomo Stanga

Il dialogo tra la professoressa Roberta Carpani e le attrici di Big Data B&B inizia a ricostruire la storia dello spettacolo dall’inizio, ovvero da una proposta del Politecnico di Milano (e, più precisamente, del gruppo di lavoro META, un progetto che si occupa di umanistica e scienze sociali in rapporto alla scienza e alle nuove tecnologie) a Laura Curino, che con l’ateneo milanese aveva già collaborato nel 2011 in occasione di Mani grandi, senza fine. Nascita e ascesa del design a Milano. La proposta in questione si rivela tanto ambiziosa (addirittura «un incubo», scherza Curino) quanto intrigante: uno spettacolo di narrazione che tratti di algoritmi, gestione dei dati e applicazione delle nuove tecnologie.

 

Il soggetto è, in quel momento, quasi del tutto sconosciuto a Curino, ma ciò non le impedisce di raccogliere la sfida, anzi: nelle parole dell’attrice, «meno capisco più mi viene voglia di lavorare su quell’argomento», utilizzando quindi il teatro come vero e proprio mezzo di conoscenza, approfittando della mancanza di pregiudizi per affrontare un tema dal punto di partenza più neutro possibile. Inizia così una fase di studio e ricerca, fase che si avvale sì della consulenza di studiose e studiosi del Politecnico ma anche di pareri esterni – e, in particolare, di un lungo dialogo con il professor Nello Cristianini, che insegna intelligenza artificiale all’università di Bristol – e di un agguerrito gruppo di lettura, il quale pesca nel mare di pubblicazioni sul tema per costituire la bibliografia di partenza del pezzo. Il singolo anno di preparazione inizialmente previsto appare presto un termine troppo stretto e, complice anche la pandemia, il gruppo lavora per ben tre anni, costruendo le varie stesure dello spettacolo su una solida base bibliografica (nel testo di Big Data B&B, recentemente pubblicato da Il Saggiatore, solo la bibliografia essenziale conta un centinaio di voci).

 

Il risultato di questo lungo processo, applaudito dal pubblico di Arzo nella serata di apertura della ventiduesima edizione, ha un’impostazione chiara: da un lato informare, cercare di spiegare le complesse questioni affrontate a un pubblico riconosciuto come «di nicchia» dalla stessa protagonista, dall’altro mantenere un linguaggio teatrale, raccontando una storia, costruendo dei personaggi (con nomi che ammiccano alla tradizione, e in particolare alla Locandiera) e, soprattutto, mantenendo un rapporto diretto e vivo con il pubblico. Intento, quello di far convivere anima scientifico-documentaristica e anima puramente teatrale, conseguito anche grazie all’aggiunta – non inizialmente prevista, ci confidano le protagoniste – di un secondo personaggio sulla scena. Beatrice Marzorati, infatti, porta sul palco una presenza giovane e più informata e rappresenta un fondamentale controcanto etico alla cialtroneria (definizione delle stesse attrici) del personaggio principale: se «fare i cattivi è sempre più divertente, e anche più facile», insomma, per portare davanti al pubblico una presa di posizione serve un’evoluzione, rappresentata in scena dal cambiamento del rapporto tra le due donne. La concretezza della protagonista, che continuamente cerca di portare esempi tangibili e pratici per chiarire concetti che le paiono troppo astratti (dai dati-acciuga al peso in byte di tutto Shakespeare, identico a quello di un video di otto secondi), si macchia a volte di approssimazione, di scorciatoie anche morali, e in quei momenti sono le parole della sua assistente a fare da bussola per spettatori e spettatrici.

 

Dallo spettacolo impariamo che una centralizzazione e un dialogo tra i saperi – ad esempio riunendo sotto il tetto dello stesso B&B informatici, avvocate, psciologhe e imprenditori digitali – saranno fondamentali per lo sviluppo del rapporto tra nuove tecnologie e società, mentre dal lungo lavoro che precede la messa in scena impariamo il valore anche conoscitivo che ancora ha il teatro. Pur trattandosi solo di «una storia, di un punto di vista», infatti, Big Data B&B «riflette su quello che  sta succedendo», lo problematizza, e cerca di evitare che si possa semplicemente «fingere che non ci riguardi»: con le parole di Curino «non possiamo più permetterci di non capire, di non sapere, di non interessarci». Proprio il finale, ci dicono le attrici, rappresenta un’assunzione di responabilità, uno smettere di ignorare il problema e un tentativo, ognuna con i suoi mezzi, di mettersi in gioco in prima persona.

 

«Se si può fare qualcosa, farlo» è quindi l’invito su cui si chiude l’incontro alla Corte dei Miracoli, e l’auspicio è che nascano altre storie sul tema delle nuove tecnologie, tema ancora sottorappresentato nelle arti se si considera il peso che ha nelle nostre quotidianità.