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Incontrarsi su di un palco

1 Settembre 2019

Mara Travella

C’era una volta, o Lebon una compagnia teatrale – erano gli anni ottanta – che decideva per la prima volta di portare in scena uno spettacolo intitolato «Romagna+Africa= », spettacolo nato dall’incontro tra gli attori del Teatro delle Albe e Mandiaye Ndyaie, giovane senegalese che presto diventerà anche lui attore e direttore della compagnia.

Da allora questa storia fatta di incontri umani – nati prima sulle spiagge di Ravenna e proseguiti sul palcoscenico – ha fatto tantissima strada, continuando promuovere un’idea di teatro di là dei confini tra Europa e continente africano, e che è arrivata fino ad Arzo con lo spettacolo Thioro. Cappuccetto rosso senegalese, una coproduzione tra Teatro delle Albe – appunto – Ravenna Teatro, Accademia Perduta, Romagna Teatri e Ker Théatre Mandiaye Ndiaye.

Alla Corte dei miracoli ieri pomeriggio, sabato 31 agosto, il pubblico del Festival ha avuto occasione di approfondire questa realtà teatrale seguendo il dibattito moderato da Sofia Perissinotto con i protagonisti di questo progetto  – Alessandro Argnani, Fallou Diop, Adama Gueye, Simone Marzocchi, Moussa Ndiaye – e con Maria Martinelli, regista del cortometraggio, visibile ancora fino ad oggi (domenica 1 settembre) – intitolato Dem dikk Africa. 

«Non era una sfida semplice» ci ha rivelato Moussa, uno dei responsabili di questo progetto «perché Mandiaye Ndyaie (suo padre ndr) ci ha lasciato un compito importante: portare avanti il suo discorso e la sua idea». L’idea di un teatro capace di andare e tornare, di viaggiare tra le due culture e di tornare in Africa – nel nostro caso in Senegal – portando e riportando semi culturali pronti per essere piantati dando vita a nuovi percorsi creativi. Thioro. Cappuccetto rosso senegalese è un mix di parola, musica e danza, un «meticciato» – per usare il termine giusto – che trattiene gli elementi di entrambe le culture, una simbiosi che permette ad ogni attore di scoprire sempre qualcosa di diverso e attraverso l’incontro con l’alterità conoscere l’altro che è in noi. Le bambine e i bambini che hanno avuto occasione di assistere a questo spettacolo rivisitato e rivestito di musiche e colori africani hanno potuto riscoprire una storia già nota attraverso altri occhi, di spaventarsi di fronte alla iena come al lupo, di ricordarsi che una storia – da qualsiasi parte provenga – può stupire emozionare far ridere e danzare.

Come ci dice Margherita Tassi, amica degli attori, oggi lo spettacolo «è una sorta di compimento di quello che abbiamo lavorato con Mandiaye anni fa, ossia il progetto NAT, in collaborazione con il Festival di Ravenna e con altri enti, volto a trovare giovani talenti africani e dargli l’opportunità di collaborare con realtà italiane; è una sorta di compimento di questa idea originaria. Grazie alla volontà di Moussa il progetto continua ad esistere e in questo preciso momento storico questo spettacolo è un atto politico: attraverso l’immaginazione si riesce a lanciare un messaggio molto chiaro, portare Cappuccetto Rosso in Italia e in Svizzera è oggi un grande atto culturale», un atto che dimostra la capacità di intrecciare culture, d’incontrarsi.

Questa mattina abbiamo intervistato la compagnia e gli abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa di più di loro e del loro percorso umano e artistico.

Volete raccontarci un po’ cos’è per voi questo progetto, cosa rappresenta?

Fallou: Per me è una cosa molto importante. Sono arrivato dal Senegal e lì non ho studiato, per cui facendo questo progetto ho innanzitutto imparato molto, non solo in ambito teatrale. Anche solo parlare italiano per me è un grande traguardo: parlo meglio l’italiano del francese. Sono anche cresciuto molto a livello di teatro, io facevo già teatro prima, magari con venti o venticinque persone. Questo storia ha girato l’Italia, è un’esperienza molto forte. Possiamo dire di aver fatto cento trentaquattro spettacoli e non è evidente poter viaggiare e arrivare fino a qui oggi. Già solo lasciare il Senegal non era facile, io l’ho fatto e ho avuto la possibilità di andare in Francia, in Italia e ora in Svizzera.

Moussa: Semplicemente per me questo progetto è vita ed è dare vita a una persona a cui ero molto legato, è un modo di conoscerlo, di sentirlo tutti i giorni, è un modo di scoprire delle cose che non capivo di lui. È crescere strada facendo perché fare questo mi permette di crescere professionalmente e liberamente. Non cresciamo dentro una scuola ma in una non-scuola: un percorso importantissimo che non avremmo avuto altro modo di scoprire.   Stiamo crescendo, stiamo sbagliando ma anche sbagliando facciamo cose interessanti, scopriamo aspetti che ci colpiscono ogni giorno, incontriamo bellissime persone diverse da noi. Sentiamo suoni, parole che prima non conoscevamo.  Addirittura la cosa più stupida è che ogni tanto sento parlare di me e mi sembra di entrare in un mondo favoloso perché due o tre anni fa non mi sarei mai immaginato di arrivare qui ora. È un percorso che ti fa crescere senza che te ne accorgi ed è vita pura e totale.

Alessandro: Questo progetto ha un significato molto particolare perché ho trovato tre nuovi grandi amici, considerando poi che sono entrato con uno spettacolo era già in corso (con Simone Marzocchi). Io conoscevo già il Teatro delle Albe e quindi mi hanno coinvolto, è stata una bella prova sia a livello culturale che musicale. Non so quest’esperienza cosa mi porterà nel futuro, ma so cosa mi sta dando ora: vedere cose che non avrei visto e sentire, suonare musiche che forse non avrei mai suonato. Io nasco come musicista ma ho sempre avuto un grande amore per l’intreccio delle arti e rientro molto nel concetto della non-scuola perché nella mia vita ho fatto un po’ di tutto, ho un’infarinatura di diversi ambiti. La spinta che mi fa vincere le paure è fare teatro. Preferisco, ad esempio, fare la gallina di fronte a mille persone, che fare l’intervista (ride). Spero che queste esperienze diventino dei mattoni per creare un altro edificio nella mia esistenza. E anche se finiscono lì sono sicuro che creeranno qualcosa nel mio futuro.

Adama: La ricchezza che ho nella mia vita è l’aver conosciuto tante persone che prima non conoscevo e che reciprocamente, fra noi, ci possiamo aiutare. Ho studiato molto perché abbiamo fatto un grande giro per l’Italia e quest’esperienza è stata molto forte. Quando torniamo in Senegal e condividiamo questa conoscenza con gli altri.

 

Ci raccontate come mai avete deciso di lavorare su Cappuccetto Rosso?

Moussa: Dopo che Mandiaye è morto Le Albe avevano la necessità e la voglia di continuare questa strada e per continuarla volevamo mettere in scena uno spettacolo. Quindi abbiamo deciso di spostarci in Senegal, dove abbiamo iniziato dei laboratori di disegno e di teatro in una scuola. Non sapevamo ancora dove stavamo andando. Leila Marzocchi, un’illustratrice di fumetti, si occupava dei laboratori di disegno, al pomeriggio c’erano gli atelier di teatro. Un giorno Leila, camminando per il villaggio, ha visto dei bambini scalzi che la seguivano e vedendoli le è venuta in mente la storia di Cappuccetto rosso, così ci ha chiesto se anche noi avessimo nella nostra  cultura qualcosa di simile: ne è nata una discussione dove c’interrogavamo su quale animale potesse essere ‘il cattivo’, come il lupo. Ognuno di noi ha iniziato a raccontare delle storie e subito ci è venuta in mente la iena, un animale molto furbo, molto intelligente e che ti sa colpire quando vuole come il lupo. Abbiamo iniziato a ricordare storie della nostra tradizione, i racconti dei nostri nonni. Quella sera stessa abbiamo iniziato a raccontare, a legare insieme le storie. Una sera, tornati da una passeggiata, abbiamo deciso di montare lo spettacolo: Adama ha iniziato a provare la iena e il mattino dopo avevamo la nostra storia, una storia che dovesse essere simile a quella di Capuccetto. Abbiamo chiesto ai bambini di disegnare la storia e grazie alla loro immaginazione abbiamo montato lo spettacolo, tutto a partire dalla prima idea nata dalla iena.  Abbiamo scelto Cappuccetto rosso perché  volevamo trattare il tema della paura, volevamo con il teatro attraversare le paure stupide di ogni giorno, quelle che non vogliamo superare, perché sono comunque queste ultime che ci permettono di ‘attraversare il bosco’ e scoprire qualcosa di nuovo.